Ilaria Terrone
Psicologa

La relazione interpersonale: l’altro come specchio del sé

Spesso, a fine giornata, mi fermo a riflettere sulle conversazioni di cui mi ritrovo ad essere spettatrice in diverse occasioni, non solo all’interno del mio studio – dove raccolgo storie, lacrime, emozioni e vissuti che custodisco e onoro con profondo rispetto – ma soprattutto nelle situazioni quotidiane che avvengono intorno a me e di cui divento “casualmente” parte: donne che sorseggiano un caffè al bar sedute al tavolino accanto al mio, adolescenti che mandano un messaggio vocale su WhattsApp alle amiche per raccontare loro le farfalle nello stomaco che provano nel chattare con la persona che tanto piace, adolescenti arrabbiate per situazioni avvenute la sera prima nel gruppo di amici, persone che esprimono pensieri e parole dubbiose su relazioni ormai obsolete e sulle relative paure.

Insomma, tutto intorno parla di relazioni. Non solo relazioni di coppia (che comunque detengono il primato), ma anche relazioni d’amicizia, di gruppo e di lavoro.

Ritrovarmi a vivere ogni giorno questi racconti, mi porta a riflettere su qualcosa che ci riguarda tutti nello stesso modo: le relazioni interpersonali costituiscono l’elemento principale della nostra vita (sia in presenza che in assenza) e rappresentano uno specchio che ci rimanda un’immagine di noi stessi.   

Cosa significa specchio in questo caso?

Significa che il modo in cui viviamo l’altra persona, in particolare le persone con cui abbiamo una grande vicinanza emotiva (partner, persone che ci coinvolgono emotivamente, migliori amici) ci rimandano l’immagine di una parte di noi che, senza l’interazione con lui/lei, non potremmo conoscere.

Facciamo degli esempi concreti.

Relazioni di coppia in cui uno dei due partner è iracondo mentre l’altro il suo esatto opposto, tranquillo e pacato. Oppure uno dei due è emozionale, presente e carezzevole mentre l’altro sfuggente e restio al contatto fisico, agli abbracci. 

“Ma come è possibile? Io che esprimo così tanto i miei sentimenti sto con una persona anaffettiva?”  – oppure – “Io che sono così tranquilla mi ritrovo a subire i suoi scatti di rabbia?”

Ebbene sì.

Dietro queste domande amletiche, si cela una grande realtà: l’altra persona incarna il nostro lato ombra, la zona buia del nostro inconscio dove si annidano quegli aspetti di noi che rimuoviamo e che non accettiamo perché brutti, spaventosi, disdicevoli, contrari alla morale o a quanto impone la società. Una “cantina” dove i nostri fantasmi interiori, le nostre ferite emotive, vivono e rimangono fino a che qualcosa, qualcuno, nel mondo fuori le fa riemergere.

Ma da dove si origina questo processo?

Come si forma la “cantina buia” dentro di noi?

Durante la nostra infanzia abbiamo attraversato un processo chiamato “Imprinting”: tutte le esperienze emozionalmente importanti, in positivo e in negativo, che abbiamo vissuto dal concepimento fino all’inizio dell’adolescenza, hanno contribuito a formare un calco.

Proprio come i timbrini che usavamo da bambini (ricordo ancora il mio di Poochie!), tutto quello che rivivremo da adulti, sarà un’esatta ripetizione di quanto già vissuto durante l’infanzia, proprio come un copione.

Andiamo nello specifico.

Sin durante la fase di gestazione, all’interno del pancione abbiamo vissuto e condiviso le emozioni che la nostra mamma provava.

Eh si, la mamma.

Il primo amore. L’amore simbiotico, paradisiaco.

Lì dentro eravamo un tutt’uno con lei.

E pensare che per tutto l’arco della vita vorremo ritornare lì dentro per rivivere quello stato di grazia. Pensare che quando ci innamoriamo follemente stiamo rivivendo attraverso l’altro l’amore simbiotico e senza confini che abbiamo vissuto con lei. 

Ma ad un tratto arriva il momento del parto.

Che momento difficile!

Il primo distacco che abbiamo vissuto nella nostra vita: dal sentirci comodamente e perdutamente fusi nella pancia di mamma, ci siamo ritrovati ad oltrepassare un tunnel (o ad essere tirati fuori da lì) e a vivere in maniera amplificata tutte le sensazioni: le luci e i suoni intorno, le mani che ci prendevano e l’aria fredda intorno, il primo respiro, la vita in autonomia!

Da quel momento, la relazione d’amore con la mamma ha assunto una forma nuova e ben precisa, abbiamo percepito le sue emozioni, le sue paure, il suo amore grande verso di noi.

Tante le fasi che abbiamo attraversato (non basterebbe un libro intero per descriverle tutte), da neonati avevamo dei bisogni “egoistici” (quanta tenerezza in questa espressione usata in questo contesto) che un essere umano non potrebbe soddisfare, nemmeno la madre migliore del mondo, perché anche lei ha bisogno di riposare, di mangiare, di distrarsi anche per un solo minuto. E mentre si distrae non perde assolutamente l’amore per il figlio, anche se quello stesso figlio in quei momenti teme terribilmente il suo abbandono –  “se mamma non mi guarda o non mi pensa anche per un secondo non mi ama più” – 

E poi verso i tre anni “l’arrivo” del padre, la percezione della sua esistenza. All’improvviso ci siamo accorti che in questa relazione d’amore non eravamo soltanto mamma ed io, ma che c’è stato sempre anche lui. E di lì ha avuto origine il complesso di Edipo (e il corrispettivo di Elettra per le femminucce) che non sempre viene superato.

Quante avventure!

Quanti bisogni, quanta necessità di avere conferme, di sapere continuamente di essere visti, di essere amati.

Sì, perché il nostro timore più grande è proprio questo, quello di non essere amati da mamma e papà (e poi da adulti, di non essere riconosciuti dal mondo).  E quante cose abbiamo sicuramente fatto da bambini per ricevere quelle conferme, sopraffatti dal timore di non essere degni del loro amore. E quanto, ancora oggi, rinunciamo alla nostra felicità e alla nostra autenticità per ottenere quel riconoscimento, quanto di noi barattiamo ogni giorno (per approfondimenti leggi qui)

Il nostro bambino interiore è lì dentro di noi, con le stesse emozioni vissute tempo addietro ma identiche al momento in cui sono state sperimentate. Perché per la nostra parte inconscia non esiste il tempo, potrebbero passare 10, 20, 30, 80, anni, ma quella parte dentro di noi rimane lì con le sue gioie e con le sue ferite. E dato che tutti abbiamo vissuto una gestazione, un parto e abbiamo avuto (in presenza o in assenza) due genitori, due persone umane e assolutamente non perfette (e che, a loro volta, hanno avuto due genitori non perfetti), abbiamo tutti dentro di noi delle ferite emotive.

Come afferma Bert Hellinger, “incontriamo un partner che ci ricorda nostro padre e che ci ama come ci ha amati nostra madre” (per gli uomini naturalmente vale il contrario), nel bene e nel male. E la famiglia che da adulti creiamo avrà le stesse dinamiche che aveva la nostra famiglia di origine.

Ecco perché il copione si ripete, perché nel modo in cui abbiamo vissuto i nostri genitori risiede l’origine dell’amore, come i negativi delle vecchie foto che fino a qualche anno fa servivano per stampare le immagini che catturavamo con uno scatto: ogni volta che la foto sarà stampata, sarà sempre identica all’immagine originaria impressa su quel negativo. 

Fortunatamente, così come vale per la tecnologia, anche noi abbiamo la possibilità di intervenire su quell’immagine originaria e, come succede con photoshop, dopo averne preso consapevolezza, con amore,  possiamo modificarla  

Non c’è distinzione tra il dentro e il fuori di noi, ciò che avviene fuori è una prosecuzione di quanto abbiamo dentro e assume le sembianze di amico, partner, capo, ecc.

NON E’ DUNQUE L’ALTRO A CAUSARCI SOFFERENZA, MA QUALCOSA DENTRO DI NOI CHE SI MANIFESTA ATTRAVERSO L’ALTRO E CHE RICHIEDE LA NOSTRA ATTENZIONE.

La cosa più bella in tutto ciò, infatti, è che la nostra mente possiede la capacità di poter cambiare quel copione, di poterlo modificare per vivere la vita che profondamente desideriamo. E per poterlo fare possiamo utilizzare la relazione con l’altro per diventare consapevoli delle nostre dinamiche interiori, guardandole, affrontandole e prendendocene cura, trasformando quelle paure e quei fantasmi in preziose risorse emotive.

“Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore”. C.G. Jung



Tag: psicologo bari, psicologa bari, relazioni d’amore, empatia, crescita personale, C.G. Jung

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